“Porque me he enamorado
y te quiero y te quiero
Y solo deseo Estar a tu lado”
Cara crisi del capitalismo,
mi pagherai pure questa. A ‘sto punto la prendo come una cosa personale (ma quando non lo è?)
Mi pagherai essere dovuta tornare in Italia e lasciare la mia altra famiglia laggiù. Lui, un nuovo gatto e una vecchia terrazza. Pochi amici. Una suocera brusca, che intuiva il mio strazio: “sei come i bambini che arrivano in affidamento in estate, che hanno una mamma qua e una in Bielorussia”.
Mi pagherai aver dovuto fare di nuovo le valigie, senza potermi godere i giorni post-litigata, in cui ti adori e scopi come “i rivoluzionari all’indomani della vittoria” (cit. Pennac).
Mi pagherai aver chiamato l’amore mio, e aver sentito una gelosia pungente per quelle voci di ragazza. Poi l’ho capito, ero gelosa perché loro erano là, e io non potevo esserci.
Me la pagherai perché, invece, quando sono là sono sempre incazzata perché non c’è lavoro, e ti svegli a mezzogiorno perché almeno così le giornate vuote durano meno.
Mi pagherai Alberto, che sa tanto, suona, dipinge, conosce tre lingue ed è dovuto tornare a vivere coi suoi. Che non può seguire la sua bella basca, perché non potrebbe nemmeno pagare metà dell’affitto.
Mi pagherai Claudia, che fa cose belle con le parole, più di quando potessi immaginare, vuole ballare il tango e dice tutti i giorni “pronto le potremmo fissare un appuntamento?” per uno stipendio di merda.
Mi pagherai gli occhi del mio compagno, a volte troppo stanchi anche per l’amore, le sue gambe doloranti e la puzza di fritto che non lo lascia.
Mi pagherai tutte le volte che a un minuscolo progetto lui mi risponde “sai che non ho soldi”, e io mi sento una stronza per averglielo proposto. Per avergli ricordato i suoi chiodi.
Mi pagherai sua madre, addormentata sul bancone del bar alle due di notte, dopo una giornata intera in piedi nella cucina.
Me la pagherai perché sei l’invitata indesiderata di ogni conversazione, il centro di tutte le giornate. Costruisci il sottotesto di certe liti tra amanti, costruite su uno scontro di frustrazioni uguali e contrarie. Da una parte le mie giornate disoccupate. Dall’altra le sue. Tante ore, pochissimi soldi.
Devo lavorare, come tutt*. E allora, dovrò barattare qualche possibilità di lavorare con la certezza di non poterlo più toccare.
Quando mi girerò nel letto, non lo troverò addormentato, e non toccherò la sua schiena per sapere che sta lì vicino.
Non vedrò più il suo braccio destro alzarsi per accogliermi.
Non mi strazierò più con il ridicolo “m’ama non m’ama” degli innamorati paurosi.
Non ci siederemo sul divano, a dibattere se le pareti della saletta starebbero meglio in verde pistacchio o in azzurro.
Non parleremo per ore di tutta la politica del mondo, e di come – forse – qualcosa in comune io e lui alla fine ce l’abbiamo.
Ya no haré revolución desde su cuerpo de cristal.
E allora finirà questo tempo sospeso, che ho cercato di stirare fino all’assurdo, consapevole che speravamo in un evento straordinario, ai limiti del miracolo.
Caro capitalismo, me la pagherai per strapparmi un pezzo di ventre, di mano, di pelle. Per infilarti nei miei desideri, nei nostri amori, e per provare a togliere la speranza.
D’altronde, è per quello che esisti. Ma la resa non è nei miei progetti.